Il valore dei pregiudizi

Mi capita spesso di sentire dire: «L’importante è non avere pregiudizi». L’ho sentito molte volte anche a scuola, sia da parte degli studenti, sia da parte di colleghi. Il presupposto di un simile dire è il pensiero secondo cui ogni pregiudizio è sempre sbagliato e, siccome è sbagliato, diventa anche odioso. Chi manifesta pregiudizi è, quindi, da considerarsi una persona orribile, una specie di orco di Mordor della comunicazione. L’aspetto buffo di questo modo di intendere il pregiudizio è che, in realtà, il fatto di pensare di non averne, tanto da condannare senza possibilità di replica chi ne avrebbe, è il più diffuso e incontrollato fra i pregiudizi.

Al contrario, come molti pensatori hanno insegnato, tutti hanno dei pregiudizi di partenza che ritengono veri, buoni e sensati. Siccome li si ritene pacifici, non vi si pone debita attenzione. Perciò, al limite, ciò che conta è prendere sul serio i propri pregiudizi. Fra l’altro, non è poi così difficile porvi attenzione, a meno di intestardirsi o inorgoglirsi. Se si considerasse un pregiudizio solo per ciò che è, ovvero, il punto di partenza per il formarsi di giudizi più ponderati attraverso l’attività di riflessione attenta, nessun pregiudizio sarebbe in se stesso detestabile. Infatti, nessun giudizio critico è possibile senza che venga esercitato su ciò che lo precede, ovvero il pre-giudizio.

Di conseguenza mi domando: non può darsi che l’astio verso gli altrui pregiudizi indichi, in verità, l’indisponibilità di molti a prendere in seria considerazione i propri, giungendo addirittura ad immaginare, scioccamente, di non averne? Non è proprio una simile indisponibilità a testimoniare un atteggiamento poco illuminato del cuore che porta inevitabilmente a condannare chi ha pregiudizi opposti ai nostri?

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