Un virtuoso disperso della scuola

Di Luciano Pace. Quanto saremmo disposti a scommettere oggi su un diciassettenne che ha abbandonato la scuola per ritirarsi in un luogo isolato, lontano da tutto e da tutti, perché a suo modo di vedere la scuola, così com’era, gli pareva un posto orribile e disprezzabile? 

Può darsi che la risposta appaia ovvia. Al massimo, di fronte a una situazione simile, si potrebbe immaginare che l’adolescente in questione sia affetto da sindrome di Hikikomori e che, quindi, abbia bisogno di un grande sostegno psicologico. 

Oppure, come spesso viene automatico a noi insegnanti di fronte a chi decide di mollare gli studi, la reazione sarebbe di scandalo: “Ma no! Pensaci bene. La scuola è importante. E il diploma? Che cosa farai senza un diploma? Come potrai trovare un lavoro che ti piace?”, e via dicendo.  

Con questo non si intende colpevolizzare la categoria di cui anche io sono felice di far parte, ma solo segnalare un contesto di comprensione in cui siamo inseriti ogni giorno, da cui è difficile prendere le distanze per iniziare a riflettere. Basti pensare che tutte le risorse economiche extra della nostra scuola italiana (comprese quelle del PNRR) hanno come scopo evitare la dispersione scolastica. Come poter pensare che ci sia in essa qualcosa di positivo?  

Insomma, tornando al nostro adolescente problematico, al tavolo dei bagarini della storia, scommettere su di lui e sul fatto che possa diventare determinante per la cultura e la società a lui successive, pare impossibile: nessuno porrebbe nel piatto di questa scommessa un centesimo della sua fiducia.  

A meno che, non sia in grado di sapere come andrà a finire la sua storia! Se si potesse avere un “Palantir” (una delle perdute pietre veggenti di Gondor, di cui racconta Tolkien, ma che funzioni bene e non sia corrotta dal Sauron di turno), tramite cui osservare nel futuro gli esiti floridi della scelta di questo giovane al di là di ogni insperata aspettativa iniziale, la puntata potrebbe essere fatta con più consapevolezza e sicurezza.  

Purtroppo, o meglio, per fortuna, nessuno di noi può disporre di questa pietra e non può vedere nemmeno un passo più avanti rispetto alle scelte che compie ogni giorno nella sua quotidiana esistenza.  

Ciò nonostante, la storia è una sfera di cristallo a rovescio: non ti mostra ciò che accadrà in futuro, ma ciò che è successo nel passato e che, se osservato con saggezza, potrebbe aiutare ad interpretare meglio il presente, senza prendere lucciole per lanterne.  

Ebbene, come se fossimo di fronte a questa pietra magica che ci mostra per flash il passato di un adolescente simile a quello descritto, comincia la nostra storia. Siamo a Roma, nella Roma dell’inizio del VI secolo. L’Impero Romano d’Occidente (gli U.S.A dell’antichità) è caduto. Nessuno, come per la vittoria alle elezioni di Trump, osava immaginarlo davvero. Tutto è nel caos e nell’incertezza. Compresa la scuola.  

Un giovane sveglio e intelligente sente questo caos nella sua testa: disordine, violenze, guerre… Dov’è finito lo splendore della cultura greca e romana di cui gli raccontano, che sembra non esistere più? Dov’è la società in cui realizzare i suoi sogni, l’America a-storica di ogni tempo? Non ne vede l’ombra. 

Non ce la può fare! Se nella testa e nel cuore c’è una luce e ti accorgi che tutto intorno a te è oscurità, o soccombi all’oscurità o… Alimenti la forza di quella luce. Sceglie la seconda strada: dare una possibilità al lume del suo cuore, convinto che sia stato Dio a porglielo dentro. 

Lascia la scuola e da Roma si reca in un luogo non troppo distante per uscire da quel guazzabuglio romano-barbarico in cui si trovava. Giunge a Subiaco. Si inerpica in un bosco e decide di passare i suoi ulteriori tre anni da solo in una grotta scavata nella montagna. E lì alimenta la sua fiamma divina, con preghiera, silenzio, digiuno… conditi da immaginazione. E sì! Perché la fantasia è come il fiore che sboccia nel deserto: cresce se intorno a lei non c’è nessuna distrazione da cui si sente oppressa e annoiata. 

Ormai dato per disperso, questo giovane giunge ai vent’anni. È pieno di una forza impressionante. L’olio della sua luce interiore è colmo. La sua fiamma è ora un fuoco che si alimenta con costanza. Perciò, decide di diffonderla questa fiamma: la sente fatta apposta per illuminare la cultura del suo tempo ed anche al di là di esso. Noi oggi sappiamo che quella luce è giunta fino a noi. La storia funziona! 

Però ha un problema: come diffondere la luce di Dio che, a suo giudizio, si era incarnata in Gesù Cristo e nel suo cuore? Risposta presto trovata: bisogna ripartire dalla comunità scolastica. I luoghi dove si impara devono essere luoghi di promozione della cultura antica: greca, romana, cristiana.  

Tuttavia, devono essere anche luoghi dove si vive insieme, si prega insieme e, soprattutto, si lavora gli uni per gli altri. “Lavorare? Ma non starai scherzando!” – gli rispondevano i ben pensanti del suo tempo. “Il lavoro è roba da schiavi. Chi si occupa della cultura e della scuola ha ben altro da fare rispetto a lavorare. Non te lo ricordi che la scuola è un luogo di ozio per imparare piacevolmente. Sei proprio stolto, caro Benedetto. Studia l’etimologia prima di voler cambiare la cultura!”.  

Questo sarcasmo non turbava il suo animo. Egli sapeva che il lavoro, unito alla preghiera, nobilita l’anima umana, tendente alla pigrizia, il vizio che blocca lo sviluppo della cultura perché ti tiene in una dannata e superba ignoranza. Qualsiasi lavoro, invece, manuale o intellettuale che sia, sapeva per esperienza esser fatto per temprare la nostra umanità.  

Non conta ciò che fai, né se fai ciò che ti piace e ti rende felice! La gioia – testimoniava con tutto sé stesso – risiede nella relazione con Dio, non nel modo in cui impieghi le mani”. Importa solo che, mentre fai ciò che fai con dedizione e a servizio degli altri, acquisisci nel contempo la dignità che ti è più propria in quanto uomo fatto a immagine di Dio. Lezione, questa, recepita, almeno in teoria, nel primo articolo della nostra Costituzione.  

Comunque sia, convinto di ciò che faceva, comincia a fondare queste nuove scuole di vita e cultura che presero il nome di abbazie, in quanto dirette da un abate. La parola “Abbate” deriva dal Siriaco e poi dall’Ebraico “Abbà”, che significa “papà”, ovvero “colui che genera”. Solo chi è come un papà aiuta a crescere in umanità tramite la cultura. Chi educa, genera al senso della vita umana, in ogni epoca. Chi educa non può che essere padre.  

Come si addice alla disciplina tipica di un papà, nelle sue abbazie c’era ordine, metodo, amore per Dio e per la sapienza, anche umana, anche non cristiana. Tutto il contrario di ciò che aveva visto a Roma e che, diciamolo sommessamente, si vede spesso in essa anche oggi.  

In esse si facevano i lavori più disparati. In particolare, però, decise che uno dei lavori principali di cui i suoi discepoli dovessero occuparsi era di copiare, con grande attenzione, i testi della Sacra Scrittura, unitamente quelli della scrittura pagana occidentale precristiana. “E no! Questo proprio non va! Non lo voglio sentire. Copiare? Copiare è sbagliato! Significa imbrogliare. Se copi ti appropri direttamente di un bene che non è tuo. Non capisci, stolto giovane visionario, che è violazione del diritto d’autore?” – Ancora una volta si sentiva rinfacciare.  

E rispondeva sorridendo con calma: “Copiare è imitare. Serve umiltà per farlo. È necessario pensare che è prezioso ciò che stai copiando. Non deve essere sciupato, nemmeno di una virgola. Anzi! Lo abbelliremo con i colori. In modo che le copie siano opere d’arte. Inventeremo colori, tecniche per scrivere le lettere, ecc. E, tranquilli, rispetteremo gli autori, soprattutto, l’Autore della Sacra Scrittura”. Chi poteva mai fermare un entusiasmo del genere, unito a tanta modestia. 

Alcuni a lui vicini, in realtà, provarono a farlo fuori su spinta del demonio invidioso: col vino, col pane e quant’altro. Ma una volta per un calice che si sdoppia togliendo il veleno dal vino portatogli da un servo, una volta per un corvo che lo avverte: insomma, tutto ciò che si muoveva nell’universo sembrava essere dalla sua parte, che lo si creda o no. Nulla poteva fargli del male. Doveva diffondere questo suo stile di fare scuola.  

Ne fondò dodici di queste scuole, mentre era in vita. Una c’è ancora. Quella dedicata a sua sorella gemella, Scolastica, in cui, nel 1500 venne stampato a caratteri mobili il primo libro in italiano. Guarda caso, si trattava di una grammatica latina. Perché, a dirla tutta e senza timori, questo folle adolescente ha salvato, a perenne beneficio dell’umanità tutta, la bellezza della cultura dell’Impero che aveva visto andare in rovina. Chissà se Elon Musk farà lo stesso. Nonostante molti siano propensi a pensarlo, bisogna dire che i suoi followers non sembrano certo i seguaci di Benedetto.  

Dopo la sua morte, la società da lui sognata mentre si trovava nel “sacro speco”, è cresciuta all’ombra della cultura che prese il suo nome e che pose le basi dell’“Europa”. Tutti, infatti, conosciamo almeno nominalmente san Benedetto da Norcia, il santo patrono di noi cittadini europei di oggi, anche se difficilmente si poteva immaginare che si trattasse, all’inizio di questo semplice omaggio scrittorio in suo onore, proprio dell’adolescente di cui qui si è raccontato.  

Perciò, se vogliamo trarre qualche insegnamento da questa narrazione, direi che il principale è quello di non disperare troppo quando le cose vanno male oggi a scuola secondo i parametri che ci paiono più ovvi. Noi, per quanto ci si creda dotti e giusti, non possiamo prevedere tutti gli esiti delle scelte di studenti che ci appaiono folli secondo i nostri parametri.  

Tuttavia, possiamo sperare, se lo vogliamo, che Dio abbia la potenza anche oggi di fare meraviglie ritenute impossibili. Per crederlo è necessario aver fede in Lui, speranza in ciò che opera e carità in Suo Nome, proprio come ebbe il giovane Benedetto, su cui, se fossimo stati suoi coetanei o suoi insegnanti sprovvisti di queste virtù, probabilmente non avremmo puntato una lira. Più facile, appunto, se abbiamo occhi e cuore disponibili a contemplare ciò che è accaduto, farlo col “senno di poi”, grazie al Palantir rovesciato, chiamato Storia.

Nota editoriale. Articolo scritto in onore di Paolo Maschietti e corretto e rivisto grazie alla collaborazione delle studentesse Martina Fusi e Aurora Nicolini della classe 3BG dell’Istituto Perlasca di Valle Sabbia.

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