La fede: fra certezza e dubbi

Di Luciano Pace.

Settimana scorsa sono stato invitato dal gruppo dei giovani dell’Oratorio di Sale di Gussago a tenere una catechesi sulla fede. Ho promesso loro che avrei sintetizzato l’incontro in un articolo.

L’incontro ha avuto inizio con una prima riflessione sul che cos’è la fede come forma di conoscenza. Per lo più siamo abituati a interpretare la fede come una forma di conoscenza insicura, di cui non si ha certezza. Questo modo di intendere la fede ci proviene dalla cultura filosofica greca, in particolare platonica: essa è “pistis“, ovvero conoscenza per sentito dire, non accertata razionalmente. A questa conoscenza malsicura si contrappone la “scienza” (episteme), ovvero la conoscenza secondo ragione. Chi adotta questa prospettiva, giunge a ritenere la fede in Dio una conoscenza di Lui accompagnata dal dubbio e dall’incertezza.

Tuttavia, esiste un’altra prospettiva di senso, proveniente dalla cultura ebracia ed opposta alla prima. Come ha riproposto lo psicologo Erich Fromm durante il ‘900, nell’ebraismo la fede è “emunah“, ovvero certezza indubitabile. Da che cosa dipende questa sicurezza? Dal fatto che, per l’uomo di fede, Dio è fedele alla sua alleanza: Egli è la “roccia sicura” su cui poter poggiare l’esistenza. Questa prospettiva è quella illustrata da Gesù nel Vangelo. L’uomo di fede è come colui che ha “costruito la sua casa sulla roccia”.

La fede cristiana, quindi, per chi ritiene di averla ricevuta in dono, non esprime un’opinione incerta su Dio, ma la sicurezza che Egli è stabilmente fedele alla sua relazione di alleanza con chi gli è devoto. Questo significa che l’uomo di fede non ha più dubbi? Non proprio. L’uomo di fede non ha più dubbio alcuno su Dio, ma coltiva continuamente dubbi verso di sé e verso il mondo. Egli non presume di essere sempre fedele a Dio e dubita della sua fedeltà verso di Lui. inoltre, chi è fedele a Dio, ha spesso dubbi sulle logiche del mondo, che allontanano l’anima da Dio. Coltiva, infine, anche dubbi teologici, ovverosia sul modo in cui la fede cristiana stessa è talora malamente annunciata.

Una seconda riflessione, connessa alla prima, riguarda la percezione della fede personale. A chi ritiene di averla ricevuta in dono, la fede non appare come una dimostrazione razionale dell’esistenza di Dio, a cui si può giungere anche senza la fede in Cristo. Essa è, piuttosto, come un percepire la presenza della maestà divina sulla propria esistenza, comunicata tramite lo Spirito Santo. Un simile “percepire” non assume la fisionomia spirituale di un sentimento umorale: una sorta di andirivieni di emozioni altalenanti in base a come ci si sente da un giorno all’altro. Siccome la relazione con Dio è percepita alla maniera di una relazione d’amore, succede quello che accade nelle relazioni d’amore fedele: ci sono giorni in cui ci si sente più distanti, senza con ciò stesso dubitare dell’amato.

Nemmeno, la fede assume i connotati di una scelta volontaristica del tipo: “io voglio credere” e, quindi, mi convinco a credere. Un simile percepire è solo indice di testardaggine. Del resto, se così fosse, a lungo andare si dovrebbe riconoscere che la fede non ha vera consistenza: è solo il risultato della nostra pertinace ostinazione e non, così com’essa è, reale dono di Dio. La fede è percepibile come accoglienza non forzata, ovvero non dipendente da un’imposizione subita o da un obbligo interiore, di un dono ricevuto da un Altro e dall’Alto.

È molto importante, però, tener presente che la ricezione di questo dono non avviene da un giorno con l’altro. Sebbene ci siano momenti precisi e definiti nella vita di una persona di fede, in cui ha percepito in maniera particolarmente vivace la presenza di Dio nella sua esistenza, l’accoglienza della fede in Dio assume la forma di un processo lento e continuo in cui si è educati da Dio ad accettare la sua signoria sulla propria vita. Questo processo, secondo la filosofa Simone Weil, prevede due fasi ben distinte.

C’è la fase di ricerca in cui si desidera più o meno comprendere la verità su Dio, anche se non ci si ritiene ancora credenti in Lui. In questa fase, ciò che conta è essere svegli e attenti ai segni tramite cui Egli si rivela. Siccome Dio è realmente sconosciuto, è necessario fare attenzione ai tempi e ai modi in cui Egli si mostra presente. In questa fase il pericolo spirituale più grosso è scambiare Dio per ciò che Egli non è. L’esercizio del dubbio, qui, aiuta a scartare pian piano tutte le immagini fasulle di Dio, proposte dal mondo o inventate dalla nostra fervida immaginazione.

Poi, mentre si è in ricerca, giungono uno o due eventi che sono associati ad una sicura ed inaspettata rivelazione di Dio. Per Simone Weil uno di questi eventi accadde sulla soglia delle Porziuncola ad Assisi. Ella scrisse che, oltrepassando quella soglia, sentì una forza mai percepita prima che la obbligò ad inginocchiarsi. Il fatto che simili rivelazioni di Dio siano inaspettate è una fortuna: in questo modo esse non possono affatto essere scambiate da chi le riceve come qualcosa di inventato, né come allucinazioni (a meno di pensare che filosofi brillanti come Simone Weil siano tutti “allucinati”).

Grazie a queste rivelazioni, l’anima viene elevata all’accoglienza della fede in Gesù Cristo, Figlio unigenito di Dio. Ed inizia così, la seconda fase, che si potrebbe chiamare fase di obbedienza. In questa fase, il fedele riconosce in Gesù Cristo l’unica, vera, piena e definitiva Rivelazione di Dio. Ciò che prima era percepito in modo incerto ed oscuro, diventa creduto con saldezza; non per merito di chi crede, ma per opera della grazia divina. Con il dono della fede, il devoto in Cristo riceve la gioia e la consolazione dello Spirito Santo. Le beatitudini evangeliche sono espressione di questa gioia e consolazione derivanti dalla fede. Grazie alla gioia e alla consolazione, l’anima cerca di rimanere fedele alla relazione con Dio, obbedendo ai suoi precetti per amore del suo Nome Santo.

Questa fedeltà a Dio del fedele, però, non è impeccabile. Alle volte si casca. Infatti, camminare sulla via salda della fede non significa ritenere di essere infallibili e perfetti. La sicurezza risiede nel sapere e sentire che la strada su cui si cammina e su cui, alle volte, si cade, è solida. Perciò, anche se si pecca, ci si può rialzare sempre, propio perché il terreno non cede sotto i piedi. È molto meglio rovinare a terra e farsi male su un terreno sicuro, che non saper nuotare bene… nelle sabbie mobili: nel pantano delle intemperie della vita, si può solo affogare se qualcuno non ci toglie da lì, gettandoci una fune di salvezza. Una casa costruita sulla sabbia non può resistere ai guai della vita mortale.

La fede teologale è quindi un dono di Dio che si coglie ed accoglie in un processo di crescita spirituale, in cui, dimentichi di sé stessi e, per amore della verità, ci si lascia educare, con tutti i propri difetti e fragilità, dallo Spirito di Cristo risorto. Resta quindi un Mistero il se, il come e il quando Dio decida di concedere ad un’anima questo dono. Il “Mistero della fede” è proprio questo: accorgersi che il modo di operare di Cristo risorto nella propria vita e in quelle altrui rimane meravigliosamente incomprensibile. Il che, oltre a riempire il cuore di meraviglia, permette di non giudicare troppo frettolosamente coloro che non hanno fede o coloro che si sento in ricerca.

La rinuncia al giudizio nei confronti di chi non crede in Cristo è, in definitiva, uno dei frutti più belli collegati al dono della fede teologale. Ma – immagino – sia sempre più difficile da comprendere in un mondo in cui la più consueta modalità di comunicazione è diventata il giudizio e la condanna di chi non condivide anche solo le nostre opinioni. Nella società in cui tutti la dobbiamo pensare allo stesso modo per non infastidirci troppo a vicenda, potrebbe essere più difficile cogliere il senso della fede qui brevemente illustrato.

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