Una freschezza che sorprende

Di Luciano Pace.

Durante la settimana scorsa ho avuto l’opportunità di partecipare all’annuale Convegno Nazionale per insegnanti di Religione Cattolica organizzato dalla CEI in collaborazione con il Ministero dell’Istruzione e del Merito tenutosi, come di consueto, ad Assisi. Il tema del Convegno è stato: “Una freschezza che sorprende: Cristianesimo, IRC e nuove generazioni“. Propongo in questo articolo una sintesi ragionata di ciò che è emerso da questa preziosa e stimolante occasione formativa.

La prima considerazione riguarda l’impostazione metodologica del Convegno. Tutti noi partecipanti siamo stati invitati a svolgere una sorta di sondaggio con i nostri studenti prima di giungere ad Assisi. Il sondaggio aveva lo scopo di far emergere alcune tendenze di opinione degli alunni rispetto alla rilevanza personale e sociale che, a loro giudizio, ha la fede cristiana oggi. Dal nostro confronto durante i lavori di gruppo, dedicati alla condivisione dei risultati dei singoli sondaggi, è risaltata una linea di tendenza d’opinione molto precisa. La stragrande maggioranza degli adolescenti ritengono di valore ciò che della fede in Cristo è collegato alle dimensioni socio-affettive della vita (l’amore al prossimo, il dar la vita per gli amici, il non condannare chi sbaglia, ecc…). Al contrario, ciò che della fede riguarda le dimensioni connesse con la prassi di devozione (rinuncia ai beni materiali, preghiera, ascolto della Parola di Dio, sacramenti, ecc…) è considerato per lo più superfluo, sia a livello personale sia a livello sociale. L’impressione che si potrebbe avere di fronte ad uno scenario simile è quella per cui il precetto dell’amore è stato scisso in due parti: l’amore verso il prossimo ha grande valore; l’amore verso Dio è irrilevante per la vita.

A partire da questa preziosa ricognizione sociologica dell’immaginario degli studenti avvalentesi dell’IRC, propongo alcuni suggerimenti ideali tratti dal Convegno che, a mio giudizio, possono essere impiegati per offrire una proposta culturale nell’IRC che faccia fronte a questa divaricazione fra l’amore verso il prossimo e l’amore verso Dio. Nella consapevolezza che, sebbene non si possa dire di amare Dio che non si vede senza amare il prossimo che si ha di fronte al naso, è altrettanto importante ricordare (come ascoltato nel Vangelo di ieri) che l’amore a Dio sopra ogni cosa è il primo precetto a cui il secondo, ovvero l’amore del prossimo come sé stessi, è simile. L’uno non può stare teologicamente senza l’altro. Ma questa, è un’ovvietà – credo – per chiunque insegni Religione Cattolica.

Il ritenere superflua e irrilevante la relazione intima e spirituale con Dio, fatta di devozione viva e vera, è un tratto tipico del nostro tempo che è stato posto bene in luce da don Alberto Cozzi nella relazione di apertura del Convegno, dal titolo: “Lo scandalo del cristianesimo oggi. La voce della Teologia“. Il primo suggerimento ideale lo traggo da un passaggio della sua relazione: viviamo nell’epoca dell’ateismo semantico, ovvero nel tempo in cui è difficile, se non impossibile, parlare esplicitamente di Dio (e, in particolare, di quel Dio che è Gesù Cristo) come ipotesi significativa per discutere del senso della vita. Per vivere, non solo non è necessario più credere in Dio, ma nemmeno è interessante discuterne. Conversare su Dio sembra inutile, se non addirittura inopportuno. Questo disagio di parola emerge anche nelle aule dell’IRC. Infatti, per insegnare qualcosa a voce intorno a Dio, bisognerebbe farlo solo culturalmente, senza mai lasciar intendere che si vive una relazione d’amore con Lui. Tuttavia, mi domando: come è possibile parlare solo culturalmente di Dio, in un’epoca in cui la cultura non intende neppure sentirne parlare?

La risposta a questo interrogativo è stata impostata nella seconda relazione del Convegno, il cui titolo era “Lo scandalo del cristianesimo oggi. La voce della cultura“. La relazione è stata condotta sotto forma di intervista al dott. Antonio Polito da parte del dott. Francesco Ognibene. Il secondo spunto ideale lo colgo da questa intervista. Infatti, alla domanda: “Quali elementi del cristianesimo possono portare speranza oggi”, il dott. Polito, giornalista dichiaratamente laico, ha risposto senza equivoci: la resurrezione. Poi ha specificato che questo nucleo dell’annuncio cristiano lo affascina tremendamente, sebbene non riesca ancora a crederlo con fede certa, specialmente rispetto alla vita eterna a seguito della morte. Nonostante si dichiari non credente, l’idea di risollevarsi dalla morte lo invita a far attenzione alle molte “morti dell’anima” che esistono nel nostro tempo. Perciò, egli crede alla possibilità di risorgere a vita nuova, anche solo in questa vita terrena.

Se avessi di fronte a me ora il dott. Polito lo ringrazierei per ciò che ha detto, soprattutto per la sua chiarezza e decisione nel dichiararlo apertamente, senza timori. Poi, lo inviterei a riflettere filosoficamente sul fatto che, nella prospettiva dell’Eterno, non esiste un puro al di qua scollegabile da un presunto al di là. Nell’Eterno il prima e il dopo si tengono a braccetto, sempre ben saldi insieme. La speranza teologale dell’al di là sarebbe impossibile come certezza di compimento di ciò che non potesse mai apparire, chiaramente ma non del tutto, già nell’al di qua. Infine, gli direi che le sue provocazioni sono diventate per noi insegnanti da stimolo a riflettere didatticamente su come presentare la resurrezione in aula, in forma scolastica. Al riguardo, l’esito della riflessione del nostro gruppo è stato: presentiamo agli studenti testimonianze di rinascita nell’al di quà. Facciamo considerare loro storie di chi è risorto da una delusione amorosa, da una bocciatura, da una crisi familiare, ecc… Mostriamo, attraverso le forme della cultura del nostro tempo (canzoni di cantautori, opere d’arte, spezzoni di film o serie TV, ecc…) che cosa ha significato l’irruzione della speranza inattesa nelle vite di coloro che si sentivano in una situazione di morte insuperabile e di fallimento esistenziale.

Di fronte alla schiettezza del dott. Polito, mi son detto: “È possibile che un non credente non abbia timore a parlare apertamente della resurrezione, quando io spesso temo di farlo a lezione per non scadere nella catechesi? Quale timore mi abita (e ci abita come insegnanti di Religione Cattolica) rispetto a cosa dire di Dio e a come dirlo a lezione?” Il terzo suggerimento è un tentativo di risposta a queste ansie. Lo prendo da una preoccupazione legittima emersa spesso durante il Convegno, sia nelle relazioni, sia nella discussione fra colleghi. Mi riferisco al timore del fondamentalismo. Portato a parola esplicitamente, a me pare che questo timore potrebbe essere così formulato: l’annuncio chiaro ed esplicito, in parole e opere, che Gesù Cristo è il Signore di ogni uomo, è deprecabile, soprattutto a scuola, per una serie di ragioni. La prima: l’annuncio esplicito della Figliolanza divina di Cristo è opera di catechesi; perciò non va proposto a scuola dove, invece, si promuove solo la cultura religiosa. La seconda: l’annuncio esplicito delle verità connesse alla fede teologale non facilita il dialogo tra fedeli (e studenti) di religioni diverse e suona irrispettoso della dignità di altre forme della cultura laica. La terza: l’annuncio esplicito della Signoria di Cristo non è conforme alla carità teologale, perché se chi lo ascolta non è credente, potrebbe sentirsi offeso e giudicato da questo annuncio.

Rispetto a questo triplice timore, suggerisco qualche pensiero, maturato durante il Convegno. Anzitutto, c’è un equivoco sulla parola stessa “fondamentalismo”. Fondamentalista è solo colui che vuol imporre con la violenza ciò che afferma, non chi afferma con certezza ciò che crede, dandone ragione con ferma gentilezza. Magari la distinzione è sottile. Tuttavia, a me sembra che il fondamentalismo sia un atteggiamento scorretto della comunicazione, non un insieme di idee e dottrine orribili, pregiudizi insensati da scartare a-priori. In secondo luogo, proprio perché conscio della distinzione fra catechesi e insegnamento scolastico del cattolicesimo, so benissimo che non è scopo dell’IRC accompagnare in aula la vita di fede degli studenti. Tuttavia, questo non credo significhi fare a meno di raccontare, tramite la cultura, il significato preciso della fede che dà senso alla mia vita; basta che ciò sia fatto con rispetto e simpatia. In terza battuta: dialogare con fedeli di religioni diverse non significa mettersi d’accordo a tavolino su come diventare tutti uguali per non infastidirsi a vicenda; significa, piuttosto, accettarsi reciprocamente e fraternamente nella consapevolezza delle proprie irriducibili diversità in materia di fede in Dio. Da ultimo, come posso esercitare la carità teologale, culmine della vita cristiana, se mi vergogno di lasciar trasparire anche solo a parole la fede che fa da fondamento a quel culmine difficile da raggiungere per tutti?

Con il superamento di questi timori relativi al fondamentalismo, giungo al quarto ed ultimo suggerimento. È esplicitamente didattico e lo colgo dalla terza relazione del Convegno, quella tenuta dal prof. Antonio Fumagalli, dal titolo: “L’immagine del cristianesimo nella fiction e nel cinema“. Questa relazione mi ha particolarmente stimolato a riflettere sul fatto che l’industria culturale odierna, espressa nei film e nelle serie TV, propone interpretazioni molto diverse di che cosa sia la religione nel nostro tempo. Si va da serie TV in cui la prospettiva religiosa è schiettamente manichea (es. “Ragnarock”), a quelle in cui la religione genera conflittualità (“Il trono di spade”), a quelle in cui il cristianesimo è presentato in termini miracolistici (“God friended me”), ecc… Di conseguenza, un preciso percorso didattico ermeneutico-esistenziale, in cui si invitano gli studenti a riflettere criticamente su queste visioni della religione da parte della società dei consumi, potrebbe essere interessante da avviare durante l’IRC. E siccome lo ritengo interessante, lo propongo a seguito del Convegno proprio su questo blog. (clicca qui).

Un approfondimento di questo tipo, se non altro, aiuterebbe a far emergere un aspetto condiviso un po’ da tutte queste serie Tv, pur differenti fra loro: la religione intesa come devozione a Dio con tutto il cuore e sopra ogni cosa è quasi completamente assente. Perciò, mi domando al termine di questa sintesi ragionata: non sarà forse anche per questo motivo che gli studenti delle nostre aule non percepiscono come rilevante la relazione intima e spirituale con Dio? Se nella comunicazione mass-mediale si omette di segnalare che entrare in relazione con Lui vuole dire molte cose, tranne pregarlo, far la comunione e confessarsi per i propri peccati, non è forse questa una causa concomitante dell’esito del sondaggio citato all’inizio? E in che modo impostare in aula una critica agli immaginari sulla religione senza tirare in ballo questi elementi della tradizione di fede cattolica completamente assenti nell’industria culturale odierna? Lascio queste domande per la riflessione personale.

Ringrazio tutti gli organizzatori del Convegno, in particolare nella persona del dott. Ernesto Diaco, per questa preziosa occasione di formazione regalata a noi insegnanti di Religione Cattolica di tutt’Italia. Speriamo che l’entusiasmo e la gioia che si sono respirati nell’ultima relazione del Convegno, quella affidata a don Antonio Loffredo (intitolata: “Cristianesimo e nuove generazioni: un’esperienza di incontro“), possa divampare nelle aule di scuola dove si svolge l’IRC, perché si mostri la bellezza di una fede che sa produrre ancora oggi bella e sana cultura a servizio dell’umanità e della sua inestinguibile sete di senso.

Un pensiero riguardo “Una freschezza che sorprende

  1. Andrea M. ha detto:

    Caro Luciano,
    cerco di dare una risposta al motivo per cui i giovani, ma non solo, diano più importanza all’amore verso il prossimo rispetto all’amore verso Dio.
    La risposta è sorprendente: il privilegio dato alla Resurrezione rispetto alla Passione di Nostro Signore Gesù Cristo. Privilegio è un eufemismo, poiché si tende a dimenticare quasi completamente, anche a livello liturgico, il Sacrificio del Venerdì santo, momento della nostra redenzione.
    Ora, Dio avrebbe potuto redimerci anche senza la morte in croce del Suo Divin Figlio, invece ha liberamente voluto spargere ogni stilla del Suo Preziosissimo Sangue per farci vedere cosa significa dare la vita per i propri amici; ricordarci con i fatti che anche noi dobbiamo amare il nostro prossimo in questo modo, altrimenti in cosa ci distinguremmo da coloro che non credono?
    Amando il prossimo come Dio ha amato noi si ha la Carità teologale, altrimenti no e tutto scade a filantropismo.

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